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In copertina:

Cannone sul Corno Pleisshorn (m 3754) nel Gruppo dell’Ortles

2015 · Settimo edizione

Tutti i diritti riservati

© by Athesia SpA, Bolzano (1981)

Titolo dell’edizione originale: «Die Front in Fels und Eis»

Traduzione dal tedesco: Generale Aldo Daz

ISBN 978-88-6839-082-2

www.athesialibri.it

casa.editrice@athesia.it

Premessa

Il 14 aprile 1972, quando Gunther Langes, dopo una grave malattia, venne a mancare, rimasero sulla sua scrivania le pagine, quasi ultimate, per la nuova edizione di questo libro.

«Front in Fels und Eis» aveva accompagnato il suo autore e compilatore per una vita intera, fino all’ultimo giorno. Egli stesso aveva più volte affermato trattarsi del volume più caro e più importante fra tutti quelli da lui scritti.

Per Gunther Langes l’esame dei molti eventi della guerra in alta montagna a cui aveva direttamente partecipato, aveva assunto, con il passare degli anni, un valore storico del tutto particolare, pur nella conferma, a quarant’anni dalla prima edizione, della loro immutabile validità.

Questa edizione, pertanto, non si differenzia molto dalle precedenti, salvo l’aggiunta di fotografie e di schizzi fino ad oggi non pubblicati.

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Fu davvero grande gioia per Gunther Langes la possibilità di poter scrivere ampliata la sua opera sulla prima guerra mondiale. Era per lui la certezza che alle sue pagine era riconosciuto il valore di assoluta obiettività. Opera ormai esaurita da anni, ma richiesta da un particolare pubblico di appassionati e di alpinisti. Anche gli avversari di un tempo ne erano interessati, per la chiara fama dello scrittore, a loro noto per cavalleresca obiettività.

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Langes nacque nel 1899 a Fiera di Primiero, villaggio allora austriaco, ai piedi delle Pale di San Martino, e crebbe in un ambiente dolomitico che segnò, in modo evidente, la sua personalità.

Allievo delle guide più famose e dei più noti scalatori del suo tempo, superò, in breve, i suoi stessi maestri. Godeva già di una chiara fama quando, a diciassette anni lasciava i banchi della scuola per il fronte dell’Ortles, della Marmolada, per il Grappa, per l’Altopiano dei Sette Comuni, e, molti anni dopo, per il fronte occidentale.

Due medaglie d’argento al valor militare onorarono la sua uniforme di soldato dell’Imperatore e di ufficiale nella seconda guerra mondiale. Il periodo tra le due guerre costituisce storia dell’alpinismo.

Solo nel gruppo delle Pale vi sono cinquanta prime ascensioni, fra cui quella mirabile dello Spigolo al Velo della Madonna. Quale sciatore, nell’anno 1935, inventò il primo slalom gigante sulla Marmolada, e venne subito chiamato negli Stati Uniti quale esperto di sci.

L’esperienza di questo periodo è raccolta nelle numerose edizioni delle guide sciistiche ed alpinistiche alle quali più tardi si aggiunsero cenni storici e topografici, nella originale pubblicazione «Autorama» ed in numerosi volumi di un’opera geografica descrittiva sull’Alto Adige.

Inoltre, studente di filosofia e già laureato in legge, era occupato come redattore presso importanti riviste tedesche e, saltuariamente, quale giornalista a Bolzano.

Egli ha vissuto per parecchi anni in una piccola casa a Siusi, ai piedi dello Sciliar e, successivamente, sul lago di Garda, che aveva particolarmente caro, quale elemento di unione fra i paesaggi delle Alpi Centrali, dell’Ortles e delle Dolomiti.

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Lo accompagnammo per l’ultimo viaggio terreno al cimitero militare di S. Giacomo presso Bolzano. La sua bara era sostenuta da vecchie piccozze portate da giovani volontari del Soccorso Alpino. La bandiera della vecchia armata sventolava sopra le manciate di quella terra, a dire l’ultimo saluto, terra di un paese che aveva tanto amato e fedelmente servito.

Il tenente Gunther Langes, il primo scalatore dello Spigolo del Velo, il pioniere delle competizioni sciistiche, lo scrittore di successo, fu, soprattutto, un uomo che ha lasciato una traccia incancellabile nella storia del Sudtirolo.

Dr. Josef Rampold

Prefazione dell’autore

Lo scacchiere della prima guerra mondiale che si estendeva per novemila chilometri fra Europa ed Asia, dalle rive del Mare del Nord fino alle sabbie dei deserti dell’Arabia ed alle boscaglie delle colonie tedesche in Africa, era caratterizzato da un continuo variare di aspetti.

Nessun settore fu peraltro così singolare come quello che si articolava sulle più alte vette dell’arco alpino.

Questo libro racconterà le vicende della vita e delle battaglie che hanno avuto luogo lassù. Le fotografie sono testimonianza fedele di azioni che hanno dell’inverosimile, pur nella naturalezza della presentazione che è ben lontana da ogni falsificazione o montaggio.

Teatro della guerra in montagna furono le Alpi, ad una altezza oltre la quale si spegne ogni forma di vita e la stessa natura si fa nemica dell’uomo. Questa linea inizia dove i monti si elevano verso il cielo, oltre i duemila metri, con la nuda roccia ed i ghiacciai perenni. Non sembra possibile estendere l’esame ad altri fatti, in quanto non si intendeva scrivere un’opera completa sulla guerra in alta montagna. Verrà esposta, nelle pagine, solo una scelta di episodi di vita e di combattimenti di questa singolare guerra combattuta dove regna, infinito, il silenzio e si scatenano le grandi forze della natura.

Silenzio e pace quale premio ai soldati che hanno combattuto sui monti; ed asperità della natura che impone eccezionali doti di uomo e di soldato nel compimento del proprio dovere.

E proprio in questa duplice lotta contro le avversità della natura e la difficoltà estrema del combattimento, la guerra si rivelò nei suoi più caratteristici aspetti.

La guerra è sempre presente nel passare dei secoli, come l’amore, come la fame.

E un libro che parli di guerra, non vuole certo essere un incentivo alla guerra, purtroppo inevitabile. Vuole essere solo commossa testimonianza della sofferenza di una nazione che la guerra ha vissuto, dall’inizio alla fine.

Vuole essere solo un ricordo ed un segno di gratitudine per tutti quelli che combatterono in alta montagna.

Dr. Gunther Langes

... «se coloro che sono legati alla loro terra, quelli uomini che hanno le loro profonde origini nel patrio suolo e che fin dall’inizio hanno impugnato le armi con esemplare entusiasmo per opporsi all’invasore su un campo di battaglia di rocce e di ghiacciai, con fedeltà, abnegazione e valore, non fossero stati capaci di dimostrarsi invincibili come lo erano stati i loro antenati» ...

V. Graf Dankl

Prefazione

Generale DANKL von KRASNIK conte Vittorio comandante d’armata austriaco e comandante della difesa territoriale del Tirolo.

Quando, nel 1914, le Armate della Monarchia Austriaca si schierarono contro la Russia e la Serbia, ebbe inizio l’ultima eroica battaglia dell’Austria-Ungheria contro forze avversarie di gran lunga superiori. Quando poi, nel 1915, si dovette pensare alla difesa del confine sud-occidentale dell’Impero, che correva in zona alpina, questa «battaglia» raggiunse il più alto indice del suo valore epico.

Un aspetto di questa epica lotta viene esposto in queste pagine. Si tratta dei combattimenti sui monti rocciosi e coperti di ghiaccio del Tirolo del Sud che per le condizioni di clima e di vita durissima, devono essere annoverati fra i più impegnativi nella storia della guerra.

Sui monti del Tirolo l’uomo ha solo Dio testimone di come soldati ed ufficiali, tiratori tirolesi e truppe della difesa territoriale hanno combattuto, fedeli alle tradizioni millenarie, valorosamente fino alla fine, non decisa dalle armi, ma dal destino che è oltre l’uomo. Una terra che origina uomini di una tale tempra e può sopportare simili sacrifici, dovrà risorgere a nuova vita.

Sentinella in un ricovero di neve in alta montagna (Monte Cristallo, Gruppo dell’Ortles).

... «II Tirolo, con la sua bellezza, con i suoi monti che pure a noi sono così cari — la terra dove la lingua tedescz suona in modo così particolare, dove il contadino vive libero sulle sue vette e dove, in ogni angolo, vi sono antichissime tracce della cultura tedesca — è una terra che possiamo considerare spiritualmente ci appartenga» ...

Konrad Krafft von Dellmensingen

Introduzione alla 1a edizione del presente volume

del Generale di Artiglieria Krafft von Dellmensingen, allora comandante del Corpo Alpino tedesco.

L’alta montagna, nella guerra dei tempi andati, costituì solo elemento di passaggio. I combattimenti ebbero luogo sulle strade che portavano ai passi, e sulle cime che ne costituivano i fianchi. Solo eccezionalmente si ebbero episodi di guerra nell’interno delle catene montuose.

Nella situazione in esame la guerra in montagna ha subito cambiamenti radicali, da un lato, per le migliori possibilità di movimenti conseguenti a strade che permettevano, in molti luoghi, di accedere al confine; dall’altro, per lo sviluppo delle tecniche alpinistiche che hanno consentito il superamento delle maggiori difficoltà, sia su roccia che su ghiaccio, fino a raggiungere le vette più alte e difficili.

Subì un conseguente e necessario adeguamento anche la tattica e l’armamento, specie di artiglieria, in quegli Stati che erano interessati a confini aventi andamento montagnoso.

Allora, si potevano impiegare in montagna solo cannoni leggeri; ora, l’indipendenza degli osservatori dalle posizioni dei pezzi, le possibilità di tiro indiretto, le migliori condizioni di comunicazione ed i progressi nel tiro dei mortai consentono l’impiego di ogni tipo di artiglieria e da ogni posizione, sia in alto che in fondovalle, e con notevole massa di fuoco.

Se prima il confine risultava protetto dalla semplice difesa fortificata dei passi, ora invece era necessario difendere le catene montuose tra passo e passo, per mezzo di opportuni provvedimenti. Si dovettero prendere in considerazione anche quei settori di montagna considerati prima inaccessibili, poiché il loro superamento consentiva di aggirare gli sbarramenti e di renderne vana l’efficacia, tenendoli sotto il fuoco dall’alto.

Così ogni settore montagnoso divenne, in pratica, teatro di guerra, per tutti quei paesi confinanti con simili terreni.

Nell’Impero austro-ungarico tale stato di cose fu preso in esame, in vista di una possibile guerra con l’Italia, e si era portata avanti una certa preparazione.

Marmolada. Ponte in caverna sopra un crepaccio.

L’ingresso della caverna è crollato.

Il Tirolo, in una guerra mondiale, sarebbe divenuto zona di combattimento in quanto ci si doveva aspettare che un attacco italiano avrebbe avuto i suoi obiettivi collocati profondamente ad est e a nord-est, e quindi l’impiego del Sudtirolo, quale zona di sbocco per le forze austriache contro l’Italia, era inevitabile.

Nei primi anni della guerra mondiale, quando l’Italia era ancora neutrale, questo territorio era quasi privo di truppe da combattimento. Ci si accontentò, in questo periodo di tempo, di predisporre una linea di difesa avente una certa continuità, anche cedendo qualche tratto di territorio, e di allestire alcune posizioni di sbarramento più arretrate.

Tutti questi preparativi, sulle montagne rocciose e sui ghiacciai, richiesero improba fatica, ed alla dichiarazione di guerra con l’Italia avevano raggiunto la consistenza di una debole linea difensiva che nei posti più difficili, presentava soluzioni di continuità, e ciò per la scarsità di uomini e di mezzi da impiegare nei lavori necessari.

Vi era anche scarsità di truppe da impiegare nella difesa. Le truppe reclutate localmente stavano combattendo lontano dalla loro terra, su campi di battaglia della Galizia. La carenza di truppe per la difesa del Tirolo era così pressante che si decise di trasformare i battaglioni di lavoratori (formati da anziani, riformati e personale non addestrato) in truppa da combattimento, armandoli con fucili tedeschi.

Ciononostante, all’apertura delle ostilità e di fronte alla superiorità delle forze italiane pronte ad attaccare, vi erano, lungo i cinquecento chilometri del fronte del Tirolo, solo ventidue battaglioni territoriali e sette batterie, tutti di efficienza operatoria discutibile; fra di essi gli sbarramenti fortificati, occupati in permanenza da reparti ben addestrati. Per il completamento di questa insufficiente copertura, l’Austria dovette contare, all’inizio, sui così chiamati «Standschützen» circa trentamila uomini. Si trattava quasi di una «ultima offerta» del Tirolo, giovanissimi, solo sommariamente organizzati in modo militare e superficialmente addestrati all’uso delle armi. Accanto al loro amor patrio, ad un ostinato valore in combattimento ed una certa preparazione al tiro, essi avevano innato la loro fedeltà alla montagna. La tradizionale «difesa» di Andreas Hofer stava per rinascere.

C’è da dire che fino a quando il Tirolo non fu in grado di recuperare truppe particolarmente adatte per la difesa, e dislocate all’est, la Germania si era dimostrata disponibile per un aiuto limitato.

Vi era poi una difficoltà dovuta al fatto che la Germania non aveva truppe da montagna. Per ovviarvi, si dovette creare un «Corpo Alpino tedesco» pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia, togliendo il personale dal fronte occidentale.

Fu composto con uomini di valore, parte bavaresi, abituati alla vita tra i monti, ma con reparti formati da uomini originari delle pianure del Nord e Sud della Germania, ai quali la montagna non era certo familiare.

È ben vero che si trattava di soldati valorosi e con grande esperienza di combattimento, ma che dovevano acquisire l’adattamento all’ambiente, esperienza e mobilità su terreno difficile. Tale rafforzamento della difesa del Tirolo consentì un consolidamento della posizione e fu un valido aiuto, accolto con particolare sollievo anche da parte della popolazione.

L’aiuto sarebbe stato veramente tardivo, se gli italiani, sfruttando l’impulso iniziale all’atto della dichiarazione di guerra, avessero invaso il Tirolo attraverso tutte le possibili vie di penetrazione. Avrebbero indubbiamente avuto nelle loro mani, senza difficoltà di sorta, l’intera regione fino al passo del Brennero, tenendo conto che lo stato maggiore tedesco aveva ordinato alle sue truppe di montagna di occupare e custodire le posizioni situate sui monti, a nord del fiume Inn. Ma gli Italiani esitarono ad avanzare e, dopo l’incontro con le truppe tedesche, vennero bloccati.

Così, sulla linea di difesa prevista sulle alte quote, ebbe inizio la lunga guerra di posizione.

Così, insieme al valore dei difensori austriaci, sorsero le prime difficoltà per le truppe tedesche accorse in aiuto. Pur tuttavia non era da sottovalutare l’aiuto tedesco. Le posizioni appena accennate ed i ricoveri incompleti e non utilizzabili costrinsero i tedeschi ad affrontare le difficoltà dell’ambiente, a trasfondere nelle truppe tirolesi l’esperienza derivata dai combattimenti, ad ampliare le possibilità di collegamento ed organizzare l’apparato logistico. Tutto ciò, mentre si doveva adempiere al duro compito della difesa su posizioni così difficili. In tutto questo lavoro le truppe tedesche furono veramente di aiuto e di stimolo. La particolarità della guerra in montagna ebbe quale conseguenza che luoghi particolarmente dominanti ed impervi assunsero importanza determinante per l’esito dei combattimenti (Col di Lana - Tofane - Alpe di Sesto).

Le truppe tedesche hanno dato dovunque il loro aiuto, sia nei lavori di rafforzamento che nei combattimenti più duri, strettamente uniti ai loro confratelli. Più di un combattente tedesco vi ha perduto la vita e riposa nei silenziosi cimiteri di guerra, o in qualche angolo sperduto, lassù, in mezzo alle montagne meravigliose.

I combattenti dei due eserciti furono ben presto uniti da un cameratismo sorto dalle comuni esigenze ed ognuno dava qualcosa all’altro: gli austriaci la loro lunga esperienza nell’organizzazione della guerra fra i monti in cui erano vissuti da sempre; i tedeschi la loro sicurezza bellica, la loro abitudine al combattimento, la condotta accorta e le direttive più proprie per ottenere i risultati migliori.

II Corpo Alpino tedesco era rappresentativo dell’intera Germania, ne raggruppava tutte le stirpi, così che, nel comune impegno, impararono a conoscere la bellezza del Tirolo e la sua gente, in modo tale da serbarne uno dei ricordi più cari della guerra. Si venne così a creare uno stretto vincolo, ad onta delle diverse provenienze e parlate, tale da unire sempre più profondamente tutti gli uomini appartenenti ai due eserciti.

Dalla emulazione più pura e più sentita, nacque la volontà di non cedere di un passo all’avversario e la certezza che mai l’avversario avrebbe ottenuto un successo di rilievo.

Quando sul finire dell’estate, si affacciarono le prime preoccupazioni per la stagione invernale, esse vennero affrontate insieme. Ciò rese possibile il mantenimento delle posizioni sulle quote più elevate, per l’intera stagione invernale, rifornendole con quanto necessario in materiali provenienti dalla Germania.

Fin dall’autunno 1915 l’Austria aveva potuto recuperare dallo scacchiere est, le sue truppe tirolesi, così il Corpo Alpino tedesco poté essere impiegato altrove ad avvenuto passaggio della responsabilità della difesa.

Il settore Dolomiti, con le sue posizioni ancora intatte, migliorate sotto ogni aspetto e pronte per affrontare l’inverno, costituente nel suo complesso un sicuro baluardo della difesa, venne loro ceduto. Le truppe del Tiralo avrebbero dovuto occupare a lungo le posizioni allineate sui monti, in una estenuante e solitaria difesa durante l’estate e l’inverno, fra le nevi ed il ghiaccio a prezzo di sforzi indicibili, fra privazioni e perdite umane, sacrifici tutti sopportati serenamente nel nome della patria.

Tali posizioni vennero tenute fino al 1917, quando l’offensiva dell’Isonzo, cui parteciparono anche truppe tedesche, pose in movimento dalla rigida difesa tutto il fronte, mentre altri settori vennero tenuti fino alla fine.

Mai era accaduto alle truppe italiane di assicurarsi vantaggi essenziali nei combattimenti. Il fatto che questo strategico «secondo fronte», poco profondo e poco difeso, si sia potuto tenere al di là di ogni immaginazione assume significato quando si esaminino le conseguenze che si manifestarono quando, con la caduta dell’Impero, anche esso cedette ed immediatamente si aprì un varco nel fianco sud della difesa austrotedesca.

Quanto di inaudito, di incredibile, di mai accaduto, è stato compiuto durante la guerra in montagna, fra rocce e ghiacci, nel sopportare fatiche e sforzi in combattimenti durissimi, uniti ad altrettanto duro lavoro, tra fame e privazioni, sulle cime flagellate dalle tormenta, tra i mille pericoli della montagna invernale, nelle città di ghiaccio, con indicibile ingegnosità per opporsi alla natura e alle astuzie dell’avversario, testimonia in modo elevato questo meraviglioso libro, attraverso gli impressionanti racconti di coloro che li hanno vissuti ed attraverso le originali fotografie.

Vi è cantata l’ode dell’uomo bravo e fedele, che riesce a rendere possibile l’impossibile; nessuno avrebbe mai pensato che l’uomo sarebbe riuscito a superare l’inverno sulle cime più alte circondate dai ghiacci e da essi difese, ed inoltre a combattere lassù.

Vi si eterna il ricordo dei molti «militi ignoti» che hanno avuto la loro tomba introvabile nei burroni e negli abissi, caduti in combattimento o travolti dalle valanghe.

Ed il ricordo di questi caduti, nei cuori dei sopravvissuti che hanno lasciato lassù i loro migliori amici, e il pensiero di coloro che leggono queste pagine, costituisce un monumento perenne. Sia reso onore eterno al loro sacrificio.

Monaco, ottobre 1932.

La guerra in alta montagna

Con lo scoppio della guerra tra Austria ed Italia nel maggio 1915, nacque la guerra di alta montagna. Prima del conflitto mondiale, l’alpinismo militare e, di conseguenza, l’impiego delle truppe su territorio alpino, non presentava che uno sviluppo molto incerto. Si erano recuperati ben pochi insegnamenti dal progresso dell’alpinismo civile, così da restare molto indietro, e molto lontani, comunque, dal raggiungere quella perfezione dei pionieri dell’alpinismo classico.

Falsi concetti su quella che sarebbe stata la guerra avvenire, ed una rigida tendenza a conservare forme belliche tradizionali, limitavano talmente l’orizzonte di chi era preposto ai comandi per l’istruzione delle truppe alpine, che gli sforzi dei precursori dell’alpinismo militare vennero tenacemente ostacolati, invece che incoraggiati.

Con questi principi, le splendide imprese alpinistiche di singoli ufficiali e di alcuni reparti di truppa dell’esercito austriaco, compiute negli anni della prima guerra, non furono quasi mai considerate come avviamento ad una istruzione delle truppe di alta montagna, secondo criteri moderni. Si menò vanto delle affermazioni alpinistiche di alcuni ufficiali, come il maggiore Bilgeri ed il capitano Czant, il tenente Löschner ed altri e delle loro truppe: ma se ne esaltò solo il lato sportivo, senza trarne utile insegnamento per l’addestramento di reparti armati.

Al contrario, gli alti comandi si mostravano così retrogradi da addebitare a negligenza degli ufficiali le disgrazie che inevitabilmente accadevano in quei primi tentativi di manovre in alta montagna.

Grande fu lo stupore quando, nell’inverno 1913, una intera compagnia di Kaiserschützen, al comando del capitano Ludwig Scotti, raggiunse la vetta della Marmolada (3309 m). Ma ancora più grande fu la critica intorno a questa impresa di pionieri, perché, in essa, alcuni uomini ebbero congelate le dita dei piedi, soprattutto a causa dell’inadeguato equipaggiamento delle truppe impiegate in alta montagna. Alla strategia moderna, l’alta montagna rimase estranea. Non ci si poteva liberare dall’idea fondamentale che solo la pianura e le valli fossero adatte al combattimento; tutt’al più, si collegarono i colli attraversabili ed i comodi passaggi per le necessarie linee di difesa.

Allo scoppio della guerra, la maggior parte del fronte di alta montagna, costituiva una «zona militare impraticabile» rappresentata da macchie bianche sulle carte dello Stato Maggiore. Di più, fece piacere sentire che, per la difesa del Gruppo dell’Ortles, era stato giudicato sufficiente l’occupazione del passo dello Stelvio, e che tutto il gruppo delle Tofane era «militarmente impraticabile» e perciò non aveva bisogno di difesa.

Già i primi giorni di guerra mostrarono che l’occupazione di queste zone era assolutamente necessaria.

La guerra fu una ben severa maestra, e portò la persuasione che interi battaglioni potevano combattere, d’estate come d’inverno, là dove prima si credeva non si sarebbe mai potuta disturbare la pace delle aquile e dei corvi di montagna. Da dure necessità di guerra, derivarono il rapido sviluppo dell’alpinismo militare e le direttive della guerra di alta montagna.

Quando scoppiò il conflitto con l’Italia, due eserciti si trovarono uno contro l’altro sul fronte alpino. Più di due terzi del fronte del Tirolo, correva su una linea di difesa sopra i 2000 metri, piena di ostacoli: fronte assolutamente di alta montagna, fronte fra rocce e ghiacci.

L’ala destra dello schieramento austriaco che si appoggiava al punto triconfinale italiano, svizzero e austriaco, alla Cima Garibaldi (Stelvio 2843 m) ad occidente del passo dello Stelvio, si estendeva sulle più alte montagne che siano mai state teatro di combattimento, cosicché la vetta dell’Ortles (3905 m) la più alta cima dell’Impero austro-ungarico, divenne campo di combattimento.

Il fronte dell’ala destra austriaca si svolgeva su una linea ininterrotta, sopra le creste di ghiaccio del colosso dell’Ortles, sui ghiacciai e sulle montagne del gruppo dell’Adamello e della Presanella, raggiungendo le depressioni delle valli, passando nelle Giudicarle e nella vallata dell’Adige. Dal confine svizzero fino al declinare delle Alpi nella pianura lombarda, le linee di combattimento formavano un fronte di ghiacci che abbracciava quasi 100 chilometri e correva ad altezza quasi sempre superiore ai 3000 metri, tanto che il valico più basso era il passo del Tonale, alto pur sempre 1900 metri.

Dal punto più basso di tutto il fronte alpino, nella vallata dell’Adige, vicino a Rovereto, la curva altimetrica, già dai contrafforti della Val d’Adige, sale di nuovo ad altezze superiori ai 2000 metri. Sul Pasubio, alto 2300 metri, la montagna più accanitamente contesa su tutto il fronte alpino, fu dimostrato che anche in alta montagna era necessario e possibile lo spiegamento e la presa di posizione da parte di grosse formazioni di truppe, di brigate e di divisioni.

Nella zona prealpina dei Sette Comuni, dell’Altipiano di Folgaria e Lavarone, la linea del fronte si abbassava ad un’altezza dai 1000 ai 1500 metri; anche questa zona, nella cattiva stagione, pretese dalle truppe un allenamento di alta montagna.

La zona di nuda roccia, a sud delle Dolomiti, spinse il decorso della linea del fronte nuovamente sopra i 2000 metri, raggiungendo notevoli altezze sulla cresta tagliente dei monti della Val di Fiemme, poiché nessuna di queste montagne scende sotto i 2500 metri, in un ambiente selvaggio e pericoloso per le valanghe.

Come l’ala destra del fronte austriaco nel Sudtirolo era formata da una chiusa barriera di ghiaccio, così il decorso della linea del fronte, attraverso il mondo fiabesco delle Dolomiti, fu un ininterrotto e compatto fronte di rocce. Sulle carte militari lungo le linee rosse, si notavano vette su vette e la curva altimetrica si manteneva quasi stabilmente sui tremila metri, e là, dove le armate avversarie ci stavano di fronte nel cuore delle Dolomiti, i più elevati posti di vedetta superavano di qualche centinaio i 3000 metri. Il fronte raggiungeva il suo culmine, nella più alta montagna delle Dolomiti, la Marmolada (3344 m), e si manteneva stabilmente sui 3000 metri, nel gruppo delle Tofane, nel massiccio del Cristallo, sulle montagne delle Dolomiti di Sesto, come le Tre Cime di Lavaredo, Cima Undici e la Croda Rossa di Sesto. Là, dove le più conosciute montagne delle Dolomiti diminuiscono d’altezza, fu data alle armate avversarie la possibilità di combattere con forti contingenti di truppa: al Col di Lana, alto 2462 metri e al Monte Piano alto 2324 metri.

Scala di accesso al posto di guardia sul Monte Cavallo (Gruppo di Fanes)

La propaggine esterna della linea del fronte alpino si abbassava appena sulle creste di confine della Carnia, per estendersi poi, con bruschi piegamenti, verso sud, nelle Prealpi e nella pianura del fronte dell’Isonzo.

La più alta trincea della guerra mondiale fu costruita sulla più elevata montagna delle Alpi orientali, sull’Ortles, a 3905 m e qui fu issato un pezzo d’artiglieria. Trincee e ricoveri, su questo fronte, erano a notevoli altezze. Sul Gran Zebrù (3860 m) sulla Thurwieser (3652 m), sulla parete di ghiaccio della Cima Trafoi (3553 m), sul Cevedale (3778 m) sul Monte Vioz (3644 m), alla Punta S. Matteo (3692 m) ci furono combattimenti che, per l’altitudine, stavano solo di poco al di sotto di quelli sull’Ortles. La più alta bocca da fuoco del fronte dolomitico fu il famoso cannone della Marmolada, a quasi 3300 metri, che superava appena i sei cannoni italiani sulla Tofana di fuori (III) la cui posizione era a metri 3237. Il fronte alpino che abbiamo descritto, non essendo stato considerato vera e propria zona di guerra, fu luogo di concentramenti massicci.

Al principio del conflitto, le prime ardite pattuglie tracciarono, per conto loro gli itinerari, in località difficili, scegliendo i luoghi per le postazioni e per gli osservatori secondo criteri individuali, ed incominciarono, coraggiosamente, un’agitata guerra tra rocce e ghiacci. Senza esempi, senza insegnamenti, senza orientamenti tattici, le truppe alpine si fecero assolutamente da sole, e si istruirono con le loro stesse esperienze.

In questo periodo iniziale, avvenne un grandissimo cambiamento nella guerra di montagna. In molti settori del fronte, dove a difesa vi erano più montagne che pattuglie, si iniziò non la guerra moderna del ventesimo secolo, ma una caccia ardita ad una «selvaggina pericolosa». Fu l’epoca delle ricognizioni e degli attacchi, delle sorprese e dei colpi di mano. Il fronte di alta montagna divenne sempre più continuo, meno elastico. Passarono ancora molti mesi prima che le grandi lacune, sulla linea del fronte, fossero colmate. Tuttavia il primo inverno, con la sua violenza sconosciuta e terribile, creò delle zone neutrali fra le linee di combattimento, a causa delle condizioni atmosferiche e ambientali, giudicate insostenibili.

L’occupazione di monti e di ghiacciai non eccessivamente elevati, nel primo anno di guerra, insegnava già come la guerra di alta montagna potesse svilupparsi rapidamente. Infatti, se, quasi senza eccezione, le montagne intorno ai 3000 e più metri, in questo primo tempo, furono sgomberate da tutti e due gli avversari, negli inverni seguenti, furono occupate tutte, nessuna esclusa.

A ragion veduta, si era ritenuto, in passato, che le montagne, in quanto inaccessibili d’inverno, costituissero in quella stagione, un insormontabile ostacolo per l’avversario. Questa opinione cadde, quando, con enorme sorpresa, ardite pattuglie di amici e di avversari ruppero l’esilio invernale delle montagne, e diedero così la dimostrazione che, in certe regioni gelate, erano possibili molte imprese ritenute in precedenza inattuabili ed assurde.

Fattore determinante che causò l’occupazione, anche d’inverno, delle più alte posizioni alpine, fu l’incertezza sulle intenzioni dell’avversario, se egli cioè avrebbe tentato, a sua volta, l’occupazione d’inverno, o se in primavera. Su questo punto ogni calcolo ed ogni ipotesi poteva risultare vera o falsa. In molti casi, quando si pensava di essere usciti in tempo, per occupare un’alta posizione abbandonata in inverno, le truppe d’assalto erano accolte a fucilate dall’avversario, che spesso stava lassù già da parecchie settimane, e che doveva poi essere ricacciato, con operazioni ben più difficili. L’esito di questi rapidi combattimenti era il più delle volte incerto, perché si ignorava la capacità di resistenza dell’avversario. Le truppe rimanevano sui monti a qualsiasi altezza, mantenendo le posizioni anche sui ghiacciai, per dodici mesi all’anno, dal primo all’ultimo giorno, fosse ciò pericoloso o meno.

Ricoveri del II° Battaglione del 92° Reggimento

Così il fronte di alta montagna, nei due inverni di guerra 1916—1917, non ebbe discontinuità alcuna, e bocche pronte a far fuoco si allinearono su vette e ghiacciai, tra foreste e su valichi, dall’Ortles, alto 3905 metri, alle azzurre acque del Garda, a 65 metri sul livello del mare.

La guerra di alta montagna ebbe caratteristiche sue particolari. Fu, dapprincipio, guerra di uomo contro uomo, piuttosto che guerra fra grandi masse contrapposte. Dicemmo già che durante i primi mesi del conflitto, sembrò che l’unico sistema possibile di lotta fosse e dovesse restare la guerriglia di pattuglia. Poi, anche in questo campo, lo sviluppo della guerra, dimostrò la necessità di metodi diversi. Con il rafforzamento del fronte di alta montagna, si ebbe una condotta di combattimento del tutto nuova. Le fortezze naturali delle più alte montagne, grazie agli accennati lavori di rafforzamento delle posizioni con sistemi moderni, divennero baluardi formidabili. Dove si volle procedere alla loro occupazione, si conseguì la vittoria, ma solo quando non ci si occupò del numero degli uomini, dei mezzi e dei materiali. La guerra di pattuglia e il combattimento individuale si sviluppò in guerra di assedio e di posizioni.

Ciò ebbe come conseguenza che numerose truppe furono poste su settori molto limitati di fronte, come si era visto per grosse battaglie sul fronte, in zona di pianura. I combattimenti del Pasubio e del Col di Lana hanno dimostrato che anche la favola dell’impossibilità di impegnare grandi masse di truppa, in combattimenti d’alta montagna, era tramontata. Tuttavia il combattimento delle pattuglie d’assalto restò, anche in questo più ampio quadro, uno dei metodi di lotta più efficaci della guerra alpina. La pattuglia fu continuamente il polso martellante del fronte montano. Il piccolo successo conseguito dalla pattuglia, di limitata importanza in azioni di combattimento su altri fronti, se utilizzato abilmente in territorio di montagna, poteva dare risultati più che sorprendenti. Non era affatto raro che solo pochi uomini annientassero o facessero prigionieri forti nuclei di pattuglie, dieci o venti volte più forti, e che un gruppo ridicolmente esiguo potesse opporre resistenza, con successo, a interi battaglioni, decimandoli. Come caratteristica speciale del combattimento di alta montagna, si può anche ricordare la lotta corpo a corpo. Le nostre possibilità di adoperare il fucile, in terreno difficile, e le straordinarie possibilità di mettersi al riparo sotto le rocce, costringevano assalitore e difensore a balzare contro l’avversario, corpo a corpo.

Si sa di molti combattimenti nei quali i soldati, dopo aver completamente esaurito le munizioni, afferrarono le pietre, in una sorta di lotta primitiva.

Il terreno di alta montagna richiedeva, in ogni combattimento, l’azione, indipendente e decisa, del singolo uomo, più che l’impiego di truppe più o meno numerose. Ogni piano già studiato e preparato nei minimi particolari, in montagna, trovava elementi imprevisti e sorprendenti, nel terreno, nel sistema di difesa dell’avversario, nell’effetto dei singoli mezzi di assalto e di difesa. In tali condizioni, solo uomini che agissero indipendenti e combattessero individualmente, potevano avere speranza di successo. Soltanto truppe di altissimo valore umano e militare, potevano essere valide in questi difficili e impegnativi combattimenti. Il principio della massa, in questi combattimenti di alta montagna, perdette il suo valore militare. La truppa così impiegata era somigliante ad un gregge pieno di paura ed incapace di reagire, esposto alla furia del combattimento, alla cattura ed alla morte.

L’artiglieria, grazie alla sua preparazione specifica, fronteggiò le difficoltà ed i problemi inerenti alla guerra sulle Alpi, ancora meglio della fanteria, pur essendo le formazioni impiegate non sufficientemente istruite per un utile adempimento del compito loro assegnato, in zone tanto elevate. Già per quanto riguarda il trasporto dell’artiglieria, si era fermi all’idea che mai sarebbe stato necessario portare l’artiglieria in alta montagna, e non si era mai pensato che le pazienti bestie da soma avrebbero potuto rendere grandi servigi, arrampicandosi abilmente su per gli stretti, ripidi sentieri montani, i basti carichi dei singoli pezzi dei cannoni. Così pensavano, nel 1914, gli eserciti al di qua e al di là delle Alpi. Ma, neppure due anni dopo, si vedevano cannoni sulle cime ghiacciate dell’Ortles e sul fronte dell’Adamello e della Presanella; un pezzo sparava a valle dall’alto della cresta della Marmolada (3300 m), da un picco sopra i mille metri della verticale parete Sud e gli italiani avevano piazzato sei cannoni sulle vette rocciose delle Tofane. Dalle liscie pareti di roccia, dalle nevi dei ghiacciai, dalle vette e dalle creste delle alte cime, fischiavano le granate contro gli avversari, e poiché l’uomo non poteva condurre lassù un’esistenza da lombrico come in pianura, perché occhi attenti e cannocchiali spiavano continuamente monti e valli, dovette nascondersi nel grembo delle montagne.

Avamposti sulla cima di Bocche (Passo S. Pellegrino)

Si formarono quelle pericolose batterie in caverne profonde, scavate nella roccia, invisibili e indistruttibili che si manifestarono mezzi di battaglia fastidiosissimi e molto efficaci nella guerra di alta montagna. Le batterie non si appiattivano soltanto sotto le dure «corazze» di roccia, ma si rintanavano anche nel ghiaccio e di là tenevano testa all’avversario.

Non vi fu parete di montagna, nessun monte, nessun ghiacciaio, nessuna valle alpina dove non siano stati issati cannoni, se vi era speranza di utilizzare una posizione dalla quale operare costruttivamente contro l’avversario. Non sembrò esserci località impraticabile per il trasporto dei cannoni.

Tra le imprese più memorabili della guerra alpina in fatto di trasporti, va ricordato quello sulle vette di ghiaccio del gruppo dell’Ortles, e, soprattutto, sulla cima dell’Ortles stesso; ed il traino dei cannoni sui monti seghettati delle Dolomiti e anche quello degli italiani sulle cime delle Tofane. Occorse lo sforzo di centinaia di soldati, per issare un unico pezzo di artiglieria sull’Ortles, lungo erti pendii di ghiaccio e di neve. In due giorni fu pronto a far fuoco dalla vetta. Gli italiani fissarono grosse carrucole alle pareti, per potervi issare cannoni non scomponibili che, di lassù, fecero ottimamente il loro servizio, con la stessa sicurezza che se fossero piazzati in un campo di grano.

Forse il più difficile di tutti i trasporti d’artiglieria fu quello su Punta Graglia (3392 m) per la parete nord, che per la prima volta veniva scalata da uomini. Questa parete ha una inclinazione media di 45 gradi e negli ultimi tratti, raggiunge una pendenza di 60 gradi. Un pezzo di artiglieria scomponibile, fu issato con slitte da Solda verso il rifugio Città di Milano e di qui, per il ghiacciaio di Solda, fu portato nella conca di neve racchiusa dallo Schrötterhorn, dalla Punta Graglia e dal Gran Zebrù; dalla conca venne issato poi sulla vetta attraverso un canale di ghiaccio e la parete nord della Punta Graglia. Da Solda fino alla metà della parete nord, i pezzi del cannone furono trainati su slitte, esclusivamente con la forza degli uomini, e di là issate in alto con corde di acciaio. Qui avvenne un incidente che, tuttavia, finì bene. Due abili guide, provviste di piccozze e di ramponi, dovevano portare giù dalla parete sud di Punta Graglia, il capo della corda di acciaio, perché non si impigliasse. Erano legate insieme ed avevano sceso solo 50 metri della parete, quando uno di essi scivolò sul ghiaccio, trascinando l’altro verso il precipizio. Con una spaventosa discesa i due corpi volarono per quasi 500 metri, andando a sbattere sui ripidi pendii del ghiacciaio e sui salti di roccia. Uno, con una gamba rotta, l’altro con una profonda ferita al capo, laceri e contusi, erano tuttavia ancora in vita, e, dopo un soggiorno di quattro mesi in ospedale, poterono riprendere il loro duro servizio fra i monti.

Assai spesso, durante la guerra, si dovette scegliere per l’artiglieria, un punto di appoggio nascosto agli osservatorii, ai nidi delle mitragliatrici ed alle batterie avversarie, e che fosse accessibile solo ad esperti alpinisti. Un cannone fu mascherato nel mezzo della cresta rocciosa della Marmolada, sulla parete di roccia precipitante quasi a picco sul ghiacciaio, e l’accesso alla quale era di per sè, un’impresa acrobatica. Cannoni vennero issati su molte posizioni in cima alle rocce, nei posti di vedetta più avanzati, per potcr meglio operare contro l’avversario. Sulla vetta della Punta dei Bois (Castelletto) vi era un cannoncino che, situato sui merli della roccia, disturbava molto gli italiani sulla strada delle Dolomiti. Anche questi avevano trascinato un pezzo da montagna tra le caverne dei loro posti di vedetta del Lagazuoi, e di lassù fu fatto sparare contro l’avversario, all’unisono con le mitragliatrici e con i lanciamine.

Mascheramento della strada posto in opera dagli Italiani a S. Martino di Castrozza.

Sullo sfondo il Colbriccon 2603 m, duramente conteso e più volte minato e fatto saltare in aria.