Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Della stessa Autrice:
Delitto al pepe rosa. Il primo caso di Katharina Schweitzer

Titolo originale: Kirschtote
© 2004 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
I edizione italiana 2016
Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
ISBN 978-3-96041-091-1
Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Dezza 11a – Roma
www.emonsedizioni.it

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BRIGITTE GLASER

MORTE SOTTO SPIRITO

La cuoca Katharina torna a casa

Traduzione di Antonella Salzano

Elenco dei personaggi

Katharina Schweitzer – cuoca di talento, provvisoriamente occupata nella modesta locanda Il Tiglio, gestita dai genitori.

Adela Mohnlein – ostetrica in pensione con il pallino delle investigazioni.

Edgar – papà di Katharina, succube della moglie.

Martha – mamma di Katharina e cuoca a sua volta.

Carlo Balsamo – apprendista cuoco nella locanda Il Tiglio, figlio di pizzaioli napoletani.

Erna – cameriera del Tiglio.

Bernhard – fratello di Katharina, cuoco presso il ristorante Rebstock.

Sonja – moglie di Bernhard e proprietaria del Rebstock, che gestisce insieme al marito.

Konrad Hils – insegnante, distillatore amatoriale di acquavite, nonché fondatore e presidente del comitato civico che si batte contro la costruzione di un impianto da sci indoor.

Teresa – fioraia, moglie di Konrad ed ex compagna di scuola di Katharina.

Kuno Eberle – commissario svevo alle soglie della pensione, mandato in provincia in seguito a un provvedimento disciplinare.

Vladimir Borisov – profugo russo, allievo di Konrad.

La Borisova – mamma di Vladimir.

Maxi van der Camp – ex compagna di scuola di Katharina che gestisce il Breitenbrunnen, un blasonato albergo della Foresta Nera.

Toni – ex sciatore professionista, toy-boy di Maxi.

Anna Galli – creativa produttrice di distillati di nicchia, di origine italiana.

Willi Bohnert – imprenditore, padrone di una grande distilleria.

Monika – seconda moglie di Bohnert.

Achim Jäger – collettore di acquavite dai piccoli distillatori per conto di Bohnert.

Jürgen Armbruster – imprenditore che ha ereditato dal padre una solida ditta chiamata “Pietra e cemento SpA”, ma che preferisce giocare a tennis.

Franz e Hilde Doll – anziani coniugi, vicini di casa di Teresa e Konrad.

Rudolf Morgentaler – sindaco di Sasbachwalden.

Günther Träuble – vicepresidente del comitato civico diretto da Konrad.

FK Feger – giornalista del “Gazzettino di Achern e Bühler,” ex compagno di scuola di Katharina.

Ecki Matuschka – cuoco a Bombay ed ex fiamma di Katharina.

Dirk Rube – ex allievo di Konrad, appassionato d’informatica.

Schindler Blasi, Weber Gustl ed Ehmann Karle – tre clienti abituali della locanda Il Tiglio.

Dottor Kälber – ginecologo con uno studio prestigioso a Baden-Baden.

Iris Naujeck – infermiera che si prende cura di Katharina nei suoi ricoveri in ospedale.

Conan e Rambo – soprannome dei due trasportatori della ditta di spedizioni Pütz di Colonia.

Max Färber – imprenditore, chiamato “il re della spazzatura”.

Norbert Apfelböck – uomo politico che perora la causa della pista da sci in Consiglio regionale.

Udo Flattert – amministratore delegato della ditta Fun-Sport SpA e già gestore di un impianto sciistico indoor.

La cucina di mia mamma era l’inferno.

Gettai svogliatamente la decima porzione di patatine nel grasso e girai le bistecche impanate nella padella. Non mi sarei fermata a lungo in quella cucina, questo era sicuro. Come avevo potuto lasciarmi convincere a lavorare in quella specie di friggitoria? Feci saltare le patatine. Il vapore del grasso in cui sfrigolavano mi investì incollandosi alla pelle e ai capelli. Da quando lavoravo lì dentro non ero più riuscita a togliermi di dosso quella puzza.

“Tieni, ecco le tue insalate!”

Carlo spinse tre contorni d’insalata sul bancone, facendoli scivolare come dischetti da hockey. Si fermarono esattamente in corrispondenza del passavivande che si affacciava sulla sala.

Posai a mia volta i piatti con bistecca e patatine sul bancone e con una scampanellata segnalai a Erna che li poteva servire.

Mia mamma si era fratturata una gamba e mi aveva intimato di lasciare Colonia e tornare nel Baden. Sapeva come sfruttare spietatamente il mio stato d’animo confuso. In circostanze normali, avrei fatto un giro di telefonate e pregato un collega di dare una mano al Tiglio per uno o due mesi, non l’avrei mai fatto di persona. Ma gli omicidi al Bue d’Oro mi avevano disorientata non poco.

“Tre insalate di würstel alsaziani e due crostoni guarniti!”

Nel vano del passavivande si affacciò il viso tondo di Erna. Ansimava ed era invecchiata dalla mia ultima visita.

Prelevai dal frigo del lyoner e dell’emmental e incaricai Carlo di tagliare dei cetrioli sott’aceto e delle cipolle a fettine. Se non altro era un sollievo riuscire a chiudere gli occhi e non sognare più ogni notte cadaveri impiccati e surgelati. Dopo la morte di Spielmann sarebbe stato saggio alzare i tacchi… ma non mi ero mai decisa a farlo. Avevo passato settimane a fissare il soffitto, rannicchiata nella mia stanza bianca all’interno dell’appartamento di Adela. Fino a quando mia mamma non mi aveva chiamata.

“Cosa diavolo sono i crostoni guarniti?” Carlo era incuriosito.

“Un retaggio del dopoguerra.”

Mi fissò spaesato.

“Prendi una grossa fetta di pane, ci spalmi un bello strato di burro e lo copri con due etti abbondanti di salumi affettati. Guarnisci con cetriolini sott’aceto, anelli di cipolla, dadini di pomodoro e, per decorare, infilzi un paio di bastoncini salati sulla montagna di insaccati!”

Carlo fece una smorfia di disgusto. “E quella roba lì è buona?”

“Dopo anni di guerra e fame, la gente andava matta per i paninoni imbottiti, i cibi grassi e le porzioni abbondanti. E mia mamma è rimasta fedele a quel concetto. Tutta la sua cucina è nel segno della restaurazione, tutto insopportabilmente all’antica. Non inserisce un piatto nuovo nel menù da almeno vent’anni. Ecco perché serviamo ancora questi assurdi crostoni guarniti!”

“E vabbe’, finché li ordinano…” commentò pragmatico l’italiano allampanato.

Mi innervosii.

“Cavoli, Carlo, è di una noia mortale. Cucinare è un piacere solo se si provano piatti nuovi! Ai clienti non puoi presentare sempre lo stesso menù, devi sorprenderli con nuove portate, nuove combinazioni, nuovi sapori, se vuoi fare della cucina un’arte!”

“Katharina? Dove sono gli alsaziani?”

Era Erna che pressava dal passavivande.

“A proposito di provare cose nuove,” osservò Carlo guarnendo i miei mucchietti d’insalata di würstel con i suoi anelli di cipolla, “sono giorni che prometti di svelarmi il segreto della salsa al rafano perfetta. Quando ci mettiamo all’opera?”

“Non appena il macellaio Jörger avrà un bel taglio da bollito,” gli promisi porgendo a Erna le ultime insalate di würstel.

Un’ora più tardi la cucina era tirata a lucido, la nostra giornata di lavoro era finita. Carlo prese il suo skateboard e telefonò a un amico, per dargli appuntamento alla discoteca dell’Illenau. Lo accompagnai fin sulla porta. Fuori cadeva una pioggerellina sottile che velava la scuola e il municipio. Tra le rastrelliere delle biciclette e il muro della scuola erano ammonticchiate le prime foglie autunnali. Per essere l’inizio di ottobre, il tempo era ancora sorprendentemente mite, ma si sentiva che la pioggia si sarebbe portata dietro temperature più rigide. Seguii Carlo con lo sguardo, finché non oltrepassò l’autofficina avviandosi con il suo skate verso la statale B 3. Poi bighellonai per la sala da pranzo, presi una birra Rothaus fresca dietro il bancone e mi sedetti sulla panca della stufa di maiolica verde, a fianco di mio padre. Mancava poco alla mezzanotte e il locale era quasi vuoto, ma dalla saletta attigua arrivava un mormorio che a tratti si trasformava in un vero e proprio schiamazzo.

“La corale sta scegliendo un nuovo presidente?” gli chiesi bevendo un sorso di birra.

Scosse il capo. “È il comitato civico di Legelsau.”

Lo fissai smarrita.

“Sono contrari al progetto della pista da sci al coperto, vicino al Breitenbrunnen.”

Il vecchio tirò una profonda boccata dal suo Brissago. Negli ultimi anni i suoi capelli rossi, che io avevo ereditato, erano diventati bianchi e le sue lentiggini stavano scomparendo tra le rughe sempre più fitte.

“Una pista da sci al coperto?”

“Sì. Nella Ruhr ce n’è già una. Un’enorme palestra dove si produce neve artificiale con acqua e aria fredda. Là puoi sciare anche in estate. Ora quelli di Sasbachwalden vogliono costruire qualcosa di simile nel cuore della Foresta Nera, ma da quando ha cominciato a girare la voce, qui da noi si è scatenato un putiferio.”

“E si è davvero formato un comitato civico in quattro e quattr’otto? È ben strano per il pacifico Baden. Qui la gente non è così combattiva.”

“Non scherzare!” Il vecchio mi fissava con i suoi occhi vispi. “Quando è necessario, noi del Baden sappiamo anche lottare. Pensa al 1848! Pensa alle proteste contro il progetto della centrale nucleare di Wyhl!”

“E tu hai messo a loro disposizione la saletta come punto di ritrovo?”

“Da qualche parte devono pur andare, no? Tra l’altro noi ci guadagniamo anche qualcosina.”

Sbuffava piccoli anelli di fumo e sulle sue labbra passò l’accenno di un sorriso. Anni prima aveva messo la saletta a disposizione dei Verdi locali. E i giovani socialisti erano stati cacciati solo perché le loro discussioni non erano mai arrivate a una conclusione. Per essere un oste di un paesino del Baden, mio padre era sorprendentemente liberale.

Indicai il soffitto.

“Lei lo sa?”

Al primo piano giaceva mia mamma, stesa sul letto con la gamba ingessata. Guardammo entrambi in alto. Come se avesse intuito che stavamo parlando di lei, si fece sentire. Quando Martha aveva bisogno di qualcosa o era annoiata, batteva dei colpi con il bastone. Se nessuno si precipitava a raggiungerla, i colpi diventavano più incalzanti e violenti. Se poi tutto quel battere non otteneva l’effetto sperato, incominciava a urlare così forte da far tintinnare i bicchieri di birra sui tavoli. Da malata non era meno dispotica che da sana.

“Vado,” sbuffai incamminandomi verso il piano di sopra.

“Fiume francese di cinque lettere?”

Da quando era costretta a letto con la gamba rotta, faceva un cruciverba dietro l’altro. Prima non si era mai interessata alle parole crociate. Con il suo fisico imponente, che io purtroppo avevo ereditato, e una ridicola camicia da notte rosa pastello, troneggiava su una montagna di cuscini. La gamba destra, ingessata fino alla coscia, era appesa a un gancio. Non doveva fare il benché minimo movimento per almeno un’altra settimana. Essere costretti all’assoluta immobilità rappresenta sicuramente una tortura per la maggior parte della gente, ma per Martha, abituata a fare il bello e il cattivo tempo in una locanda, era addirittura l’inferno.

“Loira,” le suggerii.

“Non va bene, nella parola c’è una e.”

Il suo letto era al centro della camera. Io e mio padre l’avevamo spostato in lungo e in largo per un’ora intera, prima di trovare il punto che lei considerava ideale. Da lì poteva tenere sotto controllo porta e scale e, allo stesso tempo, vedere chiaramente cosa succedeva all’incrocio tra la statale B 3 e la Talstraße.

“Hai bussato per il fiume francese?”

“Mi scappa!”

Indicò la padella posata su un poggiapiedi all’estremità del letto.

Quello era per entrambe l’aspetto più sgradevole del suo infortunio. Per l’ennesima volta m’industriai cercando di infilare la padella sotto il suo ingombrante sedere. In ospedale l’operazione sarebbe stata molto più agevole, ma Martha aveva chiesto di essere dimessa sotto la sua personale responsabilità. Ovviamente dava per scontato che non avrei rivestito solo i panni della cuoca, ma anche quelli della sua infermiera privata.

“Chi c’è stasera nella saletta?” chiese, finito di fare il suo bisognino.

“Il comitato civico di Legelsau.”

“Quante volte ho ripetuto a papà di tenersi alla larga dalla politica?” brontolò. “Ma non mi dà mai ascolto! Un oste non può immischiarsi nella politica. Deve rimanere neutrale!”

Raccolsi i piatti sporchi che si erano accumulati nel corso della giornata e mi avviai verso la porta.

“Da domani ho intenzione di inserire un piatto del giorno. Cucina del Baden di alta qualità. Ne ho le scatole piene di seguire sempre e solo il tuo vecchio menù!”

Prima che avesse il tempo di replicare, mi chiusi la porta alle spalle e scesi le scale di corsa.

Gli oppositori della pista da sci avevano sciolto la seduta. La saletta si stava lentamente svuotando. Mentre stava per uscire, un omone con tanto di baffi da tricheco venne circondato da un capannello di persone.

“Chi è quello?” chiesi a mio padre.

“È Konrad Hils, il portavoce dei contestatori della pista, il José Bové della valle dell’Acher.”

L’uomo guardò verso di noi e fece un cenno di saluto con la mano. I suoi occhi erano azzurri come quelli di Robert Redford. Quando mi vide, ebbe un attimo di esitazione, poi mi venne incontro.

“Sei Katharina?” chiese tendendomi la mano. “Io sono Konrad, il marito di Teresa. Ho sentito molto parlare di te.”

Teresa, la mia compagna di giochi! Il suo ultimo segno di vita era stato l’invito al suo matrimonio, al quale non avevo potuto partecipare. Quand’era stato? Tre anni prima? Cinque?

“Quando dirò a Teresa che sei tornata a casa sarà felicissima!”

Konrad mi strinse energicamente la mano e mi guardò con aria raggiante. Gli altri membri del comitato uscirono.

“Anna!” Konrad richiamò una donna dai capelli neri. “Ti accompagno fino a Kappelrodeck… arrivo subito.”

Si accodò a quelli che stavano uscendo e mi salutò.

“Spero di vederti presto in quel di Legelsau.”

“Perché si chiama comitato civico di Legelsau?” chiesi a mio padre mentre aiutavo Erna a radunare sul bancone i bicchieri della saletta.

“Non sai nemmeno più dov’è Legelsau? Sei stata via così a lungo da non ricordare più niente?”

Mio padre scosse la testa incredulo.

“Legelsau si trova in una stretta valle incassata tra Sasbachwalden e Seebach. Quelli di Sasbachwalden vogliono costruire la pista da sci proprio lì.”

Il vecchio svuotò i posacenere stracolmi nella pattumiera, poi li ripulì minuziosamente con un pennellino.

“Gli abitanti della valle temono che nei giorni di pioggia, per via della grande superficie chiusa a causa della costruzione dell’impianto, il terreno non sia più in grado di assorbire l’acqua e che di conseguenza il ruscello Grimmers inondi la valle.”

“E ora Teresa vive lì?”

“Sì, nella casetta di suo nonno.”

“L’hai vista ultimamente?”

“Ha un negozio di fiori ad Achern, nella Kirchstraße.”

“Uff,” sospirò Erna lasciando cadere il suo corpicino tondo sulla panca di legno. “Là dentro si sono scaldati ben bene stasera, ve lo garantisco. Il Träuble e l’Hils hanno avuto un acceso battibecco. C’è mancato poco che venissero alle mani, due uomini così educati…”

Augurai in fretta la buonanotte, perché Erna avrebbe continuato a scaricare il fardello della giornata per almeno un’altra mezz’ora. Per quel giorno mi bastava il mio di fardello. Speravo di dormire senza fare brutti sogni.

* * *

Dei ciliegi che crescevano sui pendii collinari lungo la provinciale L 87 si intravedevano solo i grossi rami neri.

La pioggia che cadeva da giorni non aveva contribuito a migliorare il mio umore. In quelle giornate cupe l’unico raggio di sole era stata una telefonata di Teresa. Mi aveva invitata a farle visita in quel di Legelsau. Era lì che ero diretta nel mio giorno libero.

I vigneti di Waldulm e Kappelrodeck sembravano inghiottiti dal cielo grigio e plumbeo. I tergicristalli della mia vecchia Fiat Punto avevano il loro bel da fare a cercare di spazzare via l’acqua e il ventilatore non ce la faceva ad asciugare i finestrini appannati. Le case decadenti di Furschenbach, nelle quali il Comune di Kappelrodeck aveva sistemato i richiedenti asilo politico, nella pioggia apparivano ancora più desolanti. Nella stretta curva a sinistra dietro Ottenhöfen feci fatica a tenere la macchina in carreggiata. All’altezza dell’osteria Hirschen di Seebach svoltai in direzione Grimmerswald. Il cielo raddoppiò i suoi sforzi, rovesciando ancora più acqua sulla mia macchinetta. La Fiat arrancava a venti all’ora su per la salita. Speravo ardentemente che non esalasse il suo ultimo respiro proprio lì, in quel momento. Nei pressi dell’osteria All’Albero Verde sbucò dal nulla una Lada Niva nera, lanciata come un razzo verso di me. Realizzai in un lampo che né io né la mia Fiat saremmo sopravvissute a un frontale con quel mezzo pesante ed ebbi la prontezza di spirito di deviare con la piccola italiana verso il parcheggio dell’osteria. Quando le mie mani smisero di tremare, ripresi a guidare. Ormai non mancava molto. La strada ora era fiancheggiata per un centinaio di metri da tronchi d’albero accatastati, il cui profumo penetrava attraverso i finestrini chiusi. Mi piaceva quell’odore. Poche cose hanno un profumo buono come quello del legno umido appena tagliato! Il legno era da sempre una delle poche ricchezze della Foresta Nera. In passato, nelle pianure del Reno era stato soppiantato da cereali e frutta, ora veniva lavorato in una miriade di segherie locali. Dietro la segheria Börsig, una stradina stretta svoltava a destra. Ecco Legelsau. Lì la strada s’impennava, lo scrosciare del Grimmersbach sovrastava il rumore della pioggia, gli abeti alti e scuri scricchiolavano sotto il peso dell’acqua. Da diversi minuti non mi imbattevo in nessuna fattoria e la foresta si era fatta più fitta, quando comparve un rustico abbarbicato al fianco della montagna, ai piedi del Brandkopf. Davanti era parcheggiato un furgone Renault con la scritta “Fiori Hils”. Quindi Teresa si era stabilita in quel posto sperduto.

Scendendo dalla macchina, fui investita da una raffica di vento che mi scaraventò in faccia un’onda d’acqua. L’aria odorava di abete e di muschio e non si sentiva altro che lo scroscio della pioggia e il sibilo del vento. Non c’era nessun campanello, così entrai direttamente in uno stanzone dove cucina, salotto e ufficio si fondevano l’uno nell’altro e che, a prima vista, si poteva definire in un solo modo: un autentico casino.

“Teresa?”

Il sofà era capovolto, i libri erano sparpagliati davanti a uno scaffale caduto a terra. Accanto alla scrivania erano ammonticchiati alla rinfusa dei faldoni. Teresa sbucò da dietro il tavolo della cucina, con in mano dei girasoli.

“Hanno rovesciato persino i miei fiori, quei porci!”

Nonostante anche lei fosse sui trentacinque, aveva conservato la corporatura slanciata da ragazzina che le avevo sempre invidiato ai tempi della scuola e dell’apprendistato. Indossava ancora i jeans. I capelli biondo scuro ora però erano molto più corti, non più lunghi di un fiammifero. Aveva ravvivato il colore spento con delle mèches biondo chiaro.

“Cos’è successo?”

“Non ne ho idea. Sono tornata qualche minuto fa e ho trovato questo caos.”

Solo allora notai che tremava vistosamente per tutto il corpo.

“Ha tutta l’aria di un’intrusione.”

“Qui non era mai successa una cosa del genere. La porta di casa nostra è sempre aperta, come quella di tutte le altre case della valle. Qui non serve chiudere a chiave, non è come in città.”

Continuava a guardarsi intorno per la stanza, come se la spiegazione di quel disordine fosse nascosta da qualche parte. Poi venne verso di me e mi tese entrambe le mani.

“Ero così felice di rivederti, Katharina, e ora posso offrirti solo questa orribile accoglienza!”

Le sue mani erano screpolate e ruvide per il contatto quotidiano con piante in vaso, fiori e acqua. Le strinsi forte.

“Hai già chiamato la polizia?”

“Certo. Ma ci vorrà un po’ prima che arrivino quassù da Achern. Konrad però dovrebbe essere qui a momenti. Oggi vuole distillare, ha acceso il forno già questa mattina. Mi chiedo dove si sia cacciato.”

Si disinteressò di me e incominciò a girare inquieta per la stanza.

“È sparito qualcosa?” le chiesi.

Alzò le spalle, corse nell’angolo della cucina e tornò con un barattolo di latta.

“Gli intrusi non erano in cerca di soldi. Ecco, guarda qui, duecento euro, la nostra riserva per le spese di casa. Li hanno lasciati al loro posto.”

Il computer era acceso e la scrivania era stata rovistata.

“Lì manca qualcosa?” chiesi.

“Non lo so. Sono cose di Konrad.”

Fuori si fermò un’auto e si sentì qualcuno avvicinarsi precipitosamente.

“È lui,” esclamò Teresa sollevata, andando incontro a Konrad.

Il berretto blu da baseball che aveva in testa era inzuppato d’acqua e i suoi baffi da tricheco erano grondanti.

“Sacripante!” imprecò vedendo tutta quella confusione.

Dietro di lui sbucò un ragazzino sui diciassette anni largo di spalle e pallido in viso, con un’aria spaventata.

Konrad controllò immediatamente la sua scrivania e aprì freneticamente alcuni file sul computer. Il ragazzo restò in piedi sulla porta d’ingresso, estrasse dalla tasca della giacca una caramella alla fragola e se la mise in bocca. Dal berretto da baseball di Konrad piovevano sulla tastiera grosse gocce d’acqua.

“Togliti le scarpe, Vladimir. E anche tu, Konrad!” ordinò Teresa. “Mi stai imbrattando tutta la casa.”

Il ragazzo ubbidì, mentre Konrad sembrava non aver sentito. Era concentrato sui cassetti della scrivania che erano sottosopra.

Teresa gli andò vicino e gli batté dei colpetti sulla spalla.

“Manca qualcosa, Konrad? Cosa cercavano i ladri nel tuo computer? Tutto questo ha a che fare con quella maledetta pista da sci?”

“Non ne ho idea,” mormorò lui senza distogliere lo sguardo dai cassetti.

Fuori si era fermata un’altra macchina. Sbirciai dalla finestra. Era una Passat bianca e verde. La polizia aveva trovato la strada che passava per la valle di Legelsau. I due agenti si pulirono accuratamente le scarpe prima di entrare. Il più vecchio aveva dei ricciolini fittissimi, il più giovane era rasato a zero.

“Tempo di merda,” commentò il ricciolino.

“Un bel disastro,” gli fece eco il pelato.

“Come sono entrati in casa i ladri?” chiese il più vecchio tirando fuori un taccuino per gli appunti.

“Dalla porta d’ingresso, non è mai chiusa a chiave,” ammise Teresa.

“Oh, fantastico!” sbuffò il pelato. “È come se fossero stati invitati. Una cosa posso già anticiparvela: l’assicurazione non scucirà un centesimo.”

Si fece guidare per la stanza da Teresa e valutò in silenzio i danni subiti.

“Cos’è stato rubato?” chiese alla fine.

Il ricciolino prendeva appunti.

“Konrad?” Teresa si rivolse a suo marito con uno sguardo in cui c’era un misto di domanda e di sfida.

Lui alzò le spalle.

“Non sono in grado di stabilirlo!”

Guardai prima Teresa e poi Konrad, che continuavano a fissarsi dritti negli occhi. Lei non gli credeva, lo vedevo chiaramente. Konrad stava forse mentendo alla polizia?

“Vandalismo, quindi,” annotò il più vecchio.

“Ha dei nemici?” chiese il pelato dando un’occhiata sotto il sofà rovesciato.

“Ne ho un sacco,” ammise Konrad allontanandosi dalla sua scrivania. “Sono il portavoce del comitato civico di Legelsau.”

“Ahia,” commentò il ricciolino concentrandosi sul suo lavoro di scrittura.

“Ha dei sospetti su qualcuno in particolare?” s’informò l’altro battendosi inquieto il dorso con le mani.

“Mettete sotto torchio il sindaco di Sasbachwalden, la direttrice del Grand Hotel Breitenbrunnen, il presidente dello sci club di Achern… devo proseguire con la lista?”

Konrad guardava i due agenti con aria di sfida.

Il poliziotto puntò su di lui uno sguardo gelido.

“Non crederà mica sul serio che il sindaco di Sasbachwalden vada in giro a mettere a soqquadro le case degli altri?”

“Lo credo capace anche di peggio,” fu la replica.

“Questo non ci aiuta nelle indagini,” si affrettò ad aggiungere il più vecchio per smorzare la tensione. “Qualcuno di voi ha delle informazioni utili?”

“Mentre salivo quassù, all’altezza dell’Albero Verde, una Lada Niva nera stava per travolgermi,” lo informai. “Può essere che venisse da Legelsau.”

“Un fuoristrada così grande?” chiese Teresa.

Annuii.

“L’ho incrociato poco prima della segheria.”

“La targa?” chiese il ricciolino.

Non ci avevo fatto caso.

“Ora facciamo un salto dai vostri vicini. Magari hanno notato qualcosa. Faremo tutto ciò che è in nostro potere per mettere le manette a quei vandali.”

“Beato chi ci crede,” bisbigliò Konrad firmando il verbale.

Gli agenti se ne andarono senza tanti convenevoli.

“Tempo di merda,” ripeté ancora una volta il più vecchio mentre uscivano sotto la pioggia.

Rimanemmo tutti in silenzio a guardare i poliziotti. Dopo che l’auto ebbe fatto inversione e fu fuori dal cortile, Teresa scacciò bruscamente Konrad dal sofà per sollevarlo e rimetterlo al suo posto. Rimise in piedi anche le due poltrone, poi fu il turno dello scaffale.

“Vladimir!”

Fece un cenno al ragazzo per invitarlo a darle una mano e col suo aiuto sistemò anche quello. A quel punto si affrettò verso l’angolo cottura, prese un vaso dai pensili e vi sistemò i girasoli. Nel frattempo Konrad era rimasto come inchiodato nel bel mezzo della stanza. Lei non se ne curò minimamente e iniziò a risistemare i libri sullo scaffale.

“Cos’è questa sceneggiata?” sbottò alla fine Konrad.

Teresa continuò a riordinare i libri, senza dire una parola. Vladimir stava succhiando un’altra caramella alla fragola, rincantucciato in un angolino del sofà. Konrad lanciava saette con i suoi occhi da Robert Redford. Finalmente Teresa si girò verso di lui.

“Cosa manca dalla tua scrivania? Quali file sono stati violati? Perché menti alla polizia? Perché non hai nemmeno accennato alle chiamate anonime? Quali segreti hai?”

Parlava a bassa voce, con la massima calma, scandendo ogni parola. Quando ci frequentavamo, avevo litigato abbastanza spesso con Teresa da sapere che quando parlava in quel modo era furibonda. Anche Konrad lo sapeva. Tra l’altro era evidente che era contrariato dal fatto che io fossi testimone di quella scenata. Mi rivolse un sorriso fugace.

“Mancano all’appello la mia macchina fotografica e tutte le foto che ho fatto negli ultimi due mesi all’area dove dovrebbe essere costruita la pista da sci,” disse.

Teresa gli andò incontro e lo fulminò con lo sguardo.

“E perché non l’hai detto?”

“Pensi davvero che cercherebbero la mia macchina fotografica?” si difese Konrad. “Oltretutto non sono nemmeno sicuro di non averla lasciata a scuola. Non mi voglio rendere ridicolo dicendo che è stata rubata, per poi ritrovarla domani mattina in sala professori.” Si sciolse dalla sua rigidità, andò alla scrivania e iniziò a richiudere i cassetti.

“E le foto? Se non ci sono più vorrà ben dire che uno della mafia della pista da sci le ha rubate! Almeno quello avresti potuto dirlo a quei due. È pur sempre qualcosa di concreto che possono cercare.”

Teresa si piazzò al suo fianco, alla scrivania.

“Per qualche foto non importuneranno nessuno di loro, puoi credermi. Oltretutto non ci troverebbero un bel niente.”

Konrad riallineò i faldoni su una mensola accanto alla scrivania.

“Tra l’altro ho lasciato a scuola provini a contatto e negativi. Significa che posso far ristampare le foto quando voglio.”

Solo a quel punto guardò in faccia sua moglie, smise di mettere ordine e le andò vicino.

“E poi ti ho sempre detto che la lotta per impedire la costruzione di quella pista da sci sarà dura. Ma con questo,” indicò il caos tutto intorno e la cinse col braccio, “non mi piegano. Quindi, animo. Ce la faremo.”

“Rimettiamo in ordine!” sentenziò Teresa dopo un profondo sospiro.

Konrad guardò l’ora.

“Maledizione, sono già le quattro! Devo andare in distilleria. Il forno ormai sarà alla temperatura giusta, devo distillare il kirsch! Ti do una mano più tardi. Vladimir vieni, altrimenti non ce la facciamo più in giornata. Dobbiamo finire entro le otto!”

Il giovane sgusciò dall’angolo del sofà e uscì insieme a Konrad.

“Perché Konrad distilla acquavite? Non insegna all’istituto professionale?” chiesi una volta rimaste sole.

“È il suo hobby. Il podere aveva l’autorizzazione a distillare. Dopo che mio nonno mi ha lasciato la casa in eredità, la licenza è passata a noi. Tutto è incominciato così. Sai, si deve registrare ogni distillazione alla dogana di Stoccarda e bisogna farlo entro le otto di sera. Ora però mi tocca mettere tutto in ordine da sola.”

Teresa tornò a sistemare gli scaffali.

“È il caso che cucini qualcosa?” le chiesi.

“Un caffè non sarebbe male!”

Sul suo viso passò un accenno di sorriso, poi si rimise al lavoro. Nell’angolo cottura c’era una di quelle caffettiere di uso comune. Riempii d’acqua il serbatoio e misi qualche cucchiaio di caffè macinato nel filtro. Sembrava che gli scassinatori non avessero trovato particolarmente interessante quella parte della casa. Le ante della credenza erano tutte aperte, ma non erano state toccate né le stoviglie, né le pentole. Nel frigo c’erano delle salsicce e del formaggio in bustine di plastica, una margarina dietetica, alcuni yogurt alla frutta e un pezzetto di burro. Teresa non aveva mai condiviso la mia passione per la cucina. Da quel punto di vista non pareva cambiata. Quando aprii lo scomparto della verdura, trovai qualcosa di meraviglioso: funghi porcini freschi.

“E questi dove li hai trovati?” domandai posando il caffè sullo scaffale.

“Me li ha dati Hilde, la mia vicina. Conosce la foresta come nessun altro. Tutti gli anni trova i funghi più belli.”

Teresa spolverava lo scaffale con uno strofinaccio. Aveva già finito di risistemarlo.

“Hai in casa delle patate, dell’aglio e della salvia?” mi informai.

“Le patate sono in cantina, l’aglio non lo so. In giardino c’è una piantina di salvia.” Mi guardò incredula. “Vuoi davvero cucinare?”

“Sai che non c’è nulla che faccia più volentieri. E dopo tutta questa confusione non c’è niente di più consolante di un bel pasto caldo.”

“Teresa!” Konrad la chiamò da fuori, infilando la testa nella porta. “Sai chi mi ha messo il barile di mosto davanti alla distilleria?”

“Che barile?”

Si infilò gli stivali di gomma e uscì pure lei. La seguii. La pioggia era diminuita d’intensità, ma in compenso nel cortile il vento soffiava ancora più forte. Stava imbrunendo e gli abeti neri sul retro della casa si piegavano paurosamente a destra e a sinistra. Vicino alla distilleria, un piccolo fabbricato illuminato a giorno, Konrad era piegato su un grosso barile blu di plastica sul quale era posato un coperchio che al centro aveva un’apertura chiusa da un tappo di sughero. Tolse con cautela il tappo e infilò il naso nel piccolo buco.

“Ciliegie, ciliegie selvatiche e di ottima qualità!” esclamò entusiasta. “Il mosto produrrà un’acquavite favolosa! Volete annusare?”

Teresa scosse il capo, io invece ero curiosa. A tutta prima prevaleva l’odore della fermentazione. Nel barile c’erano solo ciliegie che, grazie all’aggiunta di lievito, avevano trasformato il loro fruttosio in alcol. Ma dietro la nota asprigna si percepiva un meraviglioso aroma. Non ero granché esperta di distillazione, ma a giudicare dal profumo condividevo l’opinione di Konrad: da quel mosto poteva venir fuori un’acquavite eccezionale.

“Non ho idea di chi ti abbia messo il barile davanti alla porta,” disse Teresa. “Quando sono arrivata non l’ho notato. Oggi succedono cose davvero strane. È molto inquietante!”

Si sfregò le braccia intirizzite.

“La verità verrà a galla,” mormorò Konrad. “Vladimir, vieni! Dobbiamo portare dentro il barile! Il mosto di ciliegia lo distilleremo la prossima volta. Magari nel frattempo il generoso donatore si sarà fatto vivo.”

Fece un segno al ragazzo e insieme fecero rotolare il pesante barilotto nella distilleria.

“Chi è il ragazzo?” chiesi a Teresa mentre rientravamo.

“Un alunno di Konrad, un russo-tedesco. Uno che ha una vita difficile. Konrad l’ha preso sotto la sua ala. Vladimir gli chiede sempre se può venire da noi a darci una mano. Il ragazzo lavora volentieri nei campi, gli piacciono tutti i lavori agricoli.”

Teresa fece un salto veloce in giardino e tornò con un rametto di salvia.

“Ora mi metto ai fornelli,” annunciai.

Lei annuì.

Mentre, come per magia, trasformavo le patate, la salvia, l’aglio e i funghi in una padellata o gröstl, come direbbero gli austriaci, Teresa finì di risistemare. Misi la pietanza sul tavolo. Lo stanzone emanava tranquillità e pulizia. Solo allora notai con quanto amore fosse stato ristrutturato e arredato. Il parquet chiaro faceva uno splendido contrasto con le vecchie travi di legno scuro che sostenevano la casetta. I sobri mobili di pino si adattavano perfettamente all’ambiente, come pure le piante verdi, che davano un tocco di leggerezza. Sparsa un po’ ovunque, c’era una gran quantità di oggettini scelti con cura: vasi da fiori in terracotta, zuppiere d’epoca, quadretti di rose e narcisi ad acquerello, simpatiche statuine di creta. Teresa e Konrad si erano costruiti un vero e proprio nido.

“Da quanto tempo siete sposati?” le chiesi durante la cena.

“Cinque anni. Peccato che tu non sia potuta venire al matrimonio!”

“Sarei venuta volentieri, ma l’invito è arrivato troppo tardi. A quell’epoca mi stavo trasferendo da Parigi a Palermo.”

“Già, hai viaggiato molto.”

“Eh sì. Strasburgo, Parigi, Palermo, Vienna, Bruxelles. E infine Colonia.”

“Sei sposata anche tu?”

“No.”

Quando si tocca il tema dell’amore, sento suonare dentro di me decine di campanelli d’allarme. Di solito reagisco in modo sbrigativo, ma Teresa era un’amica di vecchia data, così aggiunsi: “C’è in ballo un cuoco viennese, Ecki Matuschka. Ma fino all’anno prossimo lavorerà a Bombay.”

“Non senti una fortissima nostalgia?” volle sapere.

“La tengo sotto controllo.”

Mi sforzai di sorridere. Teresa mi guardò con aria indagatrice.

“Non è il caso che ti dilunghi in racconti, se non ti va. Non ci vediamo da un secolo! In tutti questi anni in cui sei stata lontana, ho immaginato la tua vita brillante, certa che me ne avresti parlato quando ci saremmo riviste. Ho sentito dire che a Colonia sei stata addirittura coinvolta in un caso di omicidio. È vero?”

Mi sentii come se mi avesse conficcato un pugnale nelle viscere. Anche il minimo ricordo di Spielmann mi feriva indicibilmente. Non ero in grado di parlare di quello che era successo al Bue d’Oro, tantomeno con qualcuno che non ne sapeva nulla. Ero stata troppo coinvolta negli eventi, avevo rischiato anch’io di essere uccisa… Al momento desideravo solo una cosa, che nessuno mi ricordasse quella brutta storia.

“Ti racconto di Vienna, il posto dove ho cucinato più volentieri,” tagliai corto. “E poi tu mi parli del tuo negozio di fiori…”

* * *

Quando risalii sulla mia Fiat, mancava poco alla mezzanotte. Non pioveva più, ma il forte vento autunnale continuava a sferzare gli abeti, facendoli ondeggiare e piegare in avanti e all’indietro. Gli alberi gemevano sotto quella tortura. Un nuvolone copriva la pallida mezzaluna e immergeva Legelsau in una fitta oscurità. Lieta che se non altro i piccoli fari della mia Punto funzionassero e riuscissero a proiettare un po’ di luce nella valle, presi la via del ritorno.

Nel corso della serata avevamo toccato molti temi innocui, per esempio il negozio di fiori di Teresa. Com’era orgogliosa di avere tra i clienti alcuni dei blasonati alberghi della zona! Mi aveva mostrato foto di decorazioni floreali che aveva realizzato per un buffet giapponese al Grand Hotel Bühler Höhe: quattro larghe ciotole rosso ceralacca piene di un pot-pourri di pietre, petali e delicate orchidee bianche in una sapiente combinazione. Una meraviglia! Nel suo mestiere Teresa era un’artista, come io nel mio. Anch’io avevo raccontato qualcosa della mia vita, dei capricci di famosi chef con i quali avevo lavorato, delle chiacchiere con certi ospiti illustri per i quali avevo cucinato. Delle passeggiate notturne a Vienna, dei mercatini di fiori a Parigi, dei boschetti di limoni a Palermo e dei musei di Bruxelles. In tarda serata ci aveva raggiunte Konrad. Sapeva di legno bruciato e acquavite.

“Dove ti eri cacciato?” gli aveva chiesto Teresa. “Avresti dovuto finire di distillare da un bel pezzo.”

“Ho accompagnato Vladimir a casa,” aveva borbottato “e la Borisova mi ha invitato a fermarmi a cena. Sai bene quanto le faccia piacere avere qualcuno con cui parlare dei suoi guai. Non è facile smarcarsi.”

Poi aveva incominciato a menarla con il kirsch appena distillato. Sulla parte anteriore del palato dava una fastidiosa sensazione di bruciore che ricordava un po’ l’alcol e non era riuscito a eliminare quel pizzicorino, neanche dopo la seconda distillazione. Aveva parlato quasi solo di quello. Di tanto in tanto mi ero accorta che lo sguardo dei suoi occhi blu correva furtivamente alla scrivania, per poi tornare subito a posarsi su di me e su Teresa. Forse il furto gli aveva ingenerato più preoccupazioni di quanto non avesse voluto ammettere con la moglie. Cosa c’era di così appetibile nelle foto da spingere qualcuno a introdursi in una casa sconosciuta? O i ladri erano in cerca di qualcos’altro? E le telefonate anonime alle quali aveva alluso Teresa? Per tutta la serata né Konrad né Teresa avevano fatto il minimo cenno all’intrusione. Si erano comportati entrambi come se nulla fosse successo. O non volevano parlarne in mia presenza, oppure ne scacciavano il ricordo per riuscire a dormire in quella casa isolata. Quando avevo fatto per andarmene, mi avevano accompagnata insieme alla porta. Konrad cingeva le spalle di Teresa con il braccio e lei aveva la testa sulla sua spalla. Quando avevo aperto la portiera, avevano alzato contemporaneamente la mano in segno di saluto. Una coppia affiatata.

La Fiat sobbalzava lenta lungo la discesa. Dovevo continuamente schivare tronchi e rami abbattuti dal vento.

Quei due erano davvero felici insieme? Dovevano perlomeno avere una buona dose di fiducia reciproca, altrimenti come avrebbero potuto vivere in una casa così isolata?

A Seebach l’incrocio con la provinciale L 87 era illuminato da un lampione solitario, messo in risalto dal fatto che tutte le case del centro avevano già le luci spente. Da quelle parti la sera aveva vita breve e di mattina ci si alzava di buon’ora. Appena lasciata alle spalle Seebach, la Punto incominciò a tossicchiare. Inanellai una sfilza di giaculatorie perché il cielo la tenesse in vita fino al Tiglio. A Ottenhöfen ricominciò a piovere e la tosse della macchina si trasformò in un singhiozzo asmatico. A valle di Furschenbach, dopo un paio di strattoni all’indietro, la Punto mi piantò in asso e non ci fu verso di rimetterla in moto. In quel momento una nuvola gonfia d’acqua stava scaricando il suo contenuto sulla valle dell’Acher. Frugai nella borsetta in cerca del cellulare, poi mi ricordai di averlo prestato a mia mamma perché potesse sbizzarrirsi a importunare tutto il mondo con la storia della sua gamba rotta. Aspettai un’eternità ma non passò neppure una macchina, né a scendere né a salire. Al diavolo la vita di campagna! La pioggia scorreva a rivoli sul parabrezza e il vento sferzava le portiere. Nessun segno di vita da nessuna parte. Il paesino successivo si trovava a mezz’ora di cammino. Che fare? Suonai il clacson e urlai a squarciagola, tutto inutile. Non venne nessuno. Dopo altri venti minuti di attesa, non vidi che due alternative per quella notte ormai fonda: dormire in auto o proseguire a piedi fino al primo centro abitato. Anche se con riluttanza, scelsi la seconda alternativa. Quando comparve il primo lampione di Kappelrodeck, trenta minuti dopo, avevo la giacca incollata alla pelle e le scarpe fradice. Anche in quel paese non c’era una sola finestra illuminata. Nessun locale aperto, nessuna cabina telefonica. Solo pioggia battente, che il vento mi sbatteva in faccia ora frontalmente, ora di lato. Se non altro non mi sarei potuta infradiciare ulteriormente. Stavo scegliendo una casa dove suonare il campanello, quando all’improvviso una melodia squarciò la notte. Era così alta e possente da sovrastare il rumore della pioggia e del vento. Avrebbe certamente svegliato tutto il paese addormentato. Riconobbi subito la voce, ma non il motivo. Un valzer musette. Localizzai la sorgente della musica dietro una siepe di lauroceraso. Nella casa che s’intravedeva oltre la cinta, al primo piano la luce era ancora accesa. I briosi accordi di cornamusa provenivano da lì. “A. Galli” lessi sulla targhetta. Suonai il campanello.

Sentii dei passi frettolosi scendere giù per una scala di legno, poi la porta si spalancò.

“Per l’amor del cielo, sta diluviando?”

Davanti a me c’era una donna della mia età, nella quale tutto era rotondo: gli occhi, le orecchie, la bocca, i riccioli, le braccia, i seni, i fianchi, le gambe.

“Via scarpe e calzini! Prendo un asciugamano!”

Stava di nuovo salendo di sopra.

“Voglio solo fare una telefonata. Ho sentito la musica!” le gridai dietro.

Indifferente alla mia obiezione, continuò a saltellare su per i gradini e tornò quasi subito con una bracciata di asciugamani da bagno.

“È una musica meravigliosa, vero? Il mio pezzo preferito, Les mots d’amour. L’ha scritto Michel Rivgauche per la Piaf. Lei lo canta con una tale passione, che ogni volta che lo sento mi si spezza il cuore. Ma bisogna ascoltarlo ad alto volume, anzi a tutto volume, altrimenti perde metà del suo fascino.”

“I vicini non si lamentano?” chiesi asciugandomi i riccioli.

“A quest’ora dormono tutti della grossa. E anche se così non fosse, la cosa non mi tocca. Mica lo faccio tutte le notti.”

“Mon aa-mour, mon amour,” cantava a gola spiegata sul ritornello.

Mi fece cenno di seguirla di sopra e si presentò, continuando a canticchiare.

“Comunque mi chiamo Anna. Et je mourrais d’amour, et je mourrais d’amour, mon amour, mon amour.”

Anna Galli indossava dei pantaloni di velluto rosso vinaccia. Dal collo le pendevano collane indiane, i riccioli neri erano raccolti in un foulard colorato. L’avevo già vista al Tiglio. Faceva parte del comitato civico di Legelsau.

Mi presentai, infilandomi tra i ritornelli infarciti d’amore. “Katharina.”

In quel buco non mi sarei mai aspettata una stanza come quella in cui mi condusse, come del resto neanche una come Anna. Il pezzo forte di quella camera sorprendente era senz’altro un divano rosso e blu, ricoperto di cuscini in diverse tonalità di rosso e oro. Davanti era steso un tappeto persiano disseminato di altri comodi cuscini con motivi orientaleggianti, che invitavano a sedersi. Dietro il divano svettava una palma piantata in un grosso vaso di rame e accanto una sontuosa felce verde chiaro, appoggiata su un tavolino Art déco. Sulle pareti, grandi dipinti a olio con cornici dorate raffiguravano diverse leggende della zona, a imitazione di quelli ancora più grandi del portico del Padiglione delle acque termali di Baden-Baden: Il sepolcro delle nobildonne, Le Ondine del Mummelsee, L’Hex del Dasenstein. Dal soffitto ammiccava una schiera di puttini e per terra, davanti alla grande scrivania di quercia, era stesa una pelle di orso bianco.

“Niente paura, non morde,” ridacchiò Anna. “Una volta ho visto una foto del salone di Sarah Bernhardt. La grande diva era mollemente adagiata su una chaise-longue con una pelle d’orso ai suoi piedi. Ho voluto averne una anch’io. Un centinaio di anni fa non era difficile procurarsi una pelle d’orso, in fin dei conti ogni fotografo ne aveva una. Ci faceva sedere i neonati e ne venivano fuori delle foto tenere. Io invece ho impiegato una vita a trovarne una e la mia non è nemmeno autentica. Faceva parte del materiale di scena di un teatro. Comunque fa la sua figura, non è vero?”

Annuii.

“Posso fare una telefonata?” chiesi.

“Ma certo.”

Abbassò il volume della Piaf e mi indicò un gigantesco telefono nero antidiluviano sulla scrivania di quercia. Non risaliva di certo all’epoca del salone di Sarah Bernhardt, ma molto più probabilmente a quella di un film con Humphrey Bogart.

Infilai l’indice nel disco combinatore e chiamai il Tiglio. Mentre la cornetta dava il segnale di libero, osservai i quadri dietro la scrivania. La maggior parte erano nature morte dipinte a olio con tinte forti, ma nel mezzo risaltava un delicato acquerello. Ritraeva una piccola casetta di campagna dai contorni sfumati, che aveva davanti un imponente tiglio quasi spoglio, tutto nelle tonalità del verde e del marrone. Sotto c’era scritto “Felicità”. Colsi un singolare contrasto tra il titolo e l’immagine. Al Tiglio non rispose nessuno. Non c’era da stupirsi, visto che era l’una e mezza di notte. Al servizio taxi di Kappelrodeck rispondeva solo la segreteria telefonica e l’unico mezzo che faceva servizio notturno ad Achern era prenotato per le due ore successive. Riagganciai imprecando. Mia mamma avrebbe di certo sentito il cellulare, ma non avevo alcuna intenzione di chiamarla. Sapevo troppo bene che ramanzina mi avrebbe fatto. Restava solo mio fratello che viveva a Waldulm.

“Vieni, ti accompagno io,” si offrì a quel punto Anna, “non è il caso che svegli nessun altro. A me non pesa. Sarò di ritorno entro mezz’ora. Edith Piaf si può benissimo ascoltare anche in macchina.”

Uscendo di casa, notai su uno scaffale delle bottiglie colorate, decorate con diversi tipi di frutta.

“Cosa sono?” le chiesi.

“Le nuove bottiglie per la mia acquavite,” replicò. “Ora vanno di moda quelle strette, alte, trasparenti e bianche. Io invece ho voluto optare per qualcosa di divertente e colorato. Se si vuole fare qualcosa di eccezionale, non si devono mai seguire le mode.”

“Distilli tu in persona?” chiesi piuttosto meravigliata. Non avevo mai sentito di donne che lo facessero. Nella zona erano i piccoli contadini a distillare, al fine di arrotondare i magri proventi delle attività agricole. Già uno amatoriale come Konrad era un’eccezione. Non riuscivo assolutamente a figurarmi uno scintillante uccello del paradiso, qual era Anna, impegnato in quel tipo di attività.

“Sì,” mi rispose, come se fosse la cosa più scontata del mondo. “Mio padre mi ha lasciato in eredità la sua autorizzazione ed io ne ho comprate altre tre. Le mie specialità sono le mele cotogne e le susine selvatiche.”

Si infilò stivali di gomma e impermeabile, io mi rimisi le scarpe fradice. Le mie dita dei piedi intirizzite si trasformarono immediatamente in cubetti di ghiaccio. Anna aprì le portiere di una vecchia Ford station-wagon che puzzava di vernici e trementina. Appena girata la chiave, la Piaf ripartì con una canzone perfetta per la situazione, Il pleut. Anna si mise subito a canticchiarla.

“Come ti è venuto in mente?” le chiesi.

“Cosa?”

Anna si diresse verso la provinciale L 87 e lì premette il piede sull’acceleratore. La pioggia e il vento le facevano un baffo.

“Di distillare.”

“È stato per via del mio vecchio. Era il tipo di uomo che con i bambini non ci sapeva fare. Di giocare manco a parlarne, giusto una gita ogni tanto o un film al cinema. Mi portava nella sua distilleria. Da piccola la trovavo repellente, con quel tanfo di mosto e di alcol. Brrr!” Fu percorsa da un brivido. “Ma ovviamente ho imparato il mestiere. Mi divertivo col forno a legna. Mi lasciava sempre aggiungere i ceppi e tenere vivo il fuoco.”

Tamburellava con le dita sul volante, al ritmo della musica.

“Due anni fa sono tornata in questa zona. A distanza di molto tempo sono riandata alla distilleria con mio padre e ho provato a distillare per gioco. Mi sono divertita un mondo e oggi produco acquavite di una qualità che mio padre neanche si sogna. Ben gli sta a quel vecchio brontolone. Senza contare che ci faccio pure dei bei soldini.”

“Distilli anche del kirsch?”

“Del kirsch? Scordatelo.”

Fece schioccare la lingua in segno di disprezzo.